giovedì 22 dicembre 2011

La proposta di costruire un gruppo

Negli ultimi due contributi presenti in questo blog (il post di Stefano Zanfino sul prodotto e l'analisi critica di Marco Mascioli sulla rappresentazione nel processo di cambiamento organizzativo dell'università)ho trovato dei spunti molto interessanti che vorrei provare a sviluppare. Partiamo dall'analisi critica. Nell'ultima pagina vengono citati due indicatori di verifica della formazione che propongono una ottica diversa con cui guardare alla formazione: il livello di occupazione post-laurea^1 e quello di soddisfazione per l'impiego. Il guardare a questi due indicatori può, per esempio, essere utile li dove si vuole inferire se ce ne si fa qualcosa di quello che si produce, in un certo senso se è spendibile sul mercato. Guardando ad un cliente. Un'ottica molto diversa dal "più velocemente ne sforno e meglio sono (loro o io università?)" che sembra animare l'ottica di premiare chi fa più laureati e meno di quelli fuori corso. Non perché sia un'indicatore inutile, anzi. Ma perché, come detto dal collega, se visto come un fallimento organizzativo, del modo con cui studenti e formazione si rapportano è un conto, se visto invece come un'indicatore del grado mancanza di punzecchiamento sulla pigrizia dei studenti è un'altro.

A questo punto mi sposto sul contributo di Stefano Zanfino.

Riprovo a ridefinire il suo post in una frase.

Il gruppo come funzione conoscitiva metodologicamente orientata alla definizioni di obiettivi che fondino un'intervento contestualizzato.

Riprendo e sviluppo la frase in parte ricalcando il post in parte aggiungendo del mio.



Non si propone un gruppo qualsiasi, un'associazione, ma un gruppo i cui parametri siano collegati a quello che si pongono come obiettivi, che quindi lo rendono "storico" cioè con un'inizio e una fine o una ridefinizione(rispetto un obiettivo agganciato ad un problema). Un gruppo, e qui aggiungo, che sia una funzione conoscitiva ovvero che serva a conoscere partendo dall'ipotesi che forse non sappiamo granché sull'organizzazione né su come sta cambiando. Una funzione conoscitiva che sia metodologicamente orientata, ad esempio conoscere il subbuglio che stiamo attraversando con metodi che sono peculiari della professione psicologica. Subbuglio che può essere visto come un fallimento collusivo^2. E qui mi fermo un secondo. Davanti a questo "non so" si può rispondere in due modi^3. Si può misurare con strumenti che ci dicano quanto le cose non vanno bene rispetto ad uno stato desiderabile delle cose(ad esempio quanti prof non vengo agli esami, quanti non fanno lezione, quanti studenti si laureano in tempo, quanti non frequentano ecc.)guardando alle deficienze oppure cercare di comprendere quali possano essere le domande che questa organizzazione (la facoltà ad esempio, ma anche un certo corso di laurea ecc.) potrebbe porsi. Oppure quali sono quelle problematicità (intese non come singoli casi ma come differenze tra rappresentazioni culturali) che le solite regole^4 falliscono nel codificare verso un prodotto. Regole che falliscono perché cambiando il contesto nuove situazioni, nuove domande vengono poste all'organizzazione.

E dov'é l'intervento?

Ecco se magari pensassimo che l'organizzazione non sia deficiente ma interessata a migliorare i suoi prodotti (IPOTESI CONOSCITIVA) magari capirci qualcosa di più può essere uno dei passi con cui costruire un intervento. Un'intervento non riparativo, che quindi da soluzioni una volta per tutte, ma manutentivo ossia che si in grado di collegare le nuove domande (storicizzandole) con la struttura. Se questo "cercare di capirci qualcosa" lo rivolgiamo alla relazione con qualcuno è quel qualcuno che diventa il nostro possibile interlocutore dell'intervento che da qui chiamerò psicosociale^5. Questo possibile interlocutore potremmo chiamarlo la committenza da costruire.

Se prendiamo il caso di Chiara, dalle poche righe che si evincono nel commento di Luca De Santis, ad esempio il problema può essere visto attraverso le deficienze dei vari attori, dal preside passando per la segreteria fino al professore, oppure può essere visto come un fallimento di quelle regole che organizzano quella situazione di verifica di un prodotto. E dì li diviene utilecapirci di più cercando di creare uno spazio di riflessione con i soggetti interessati.

Ora eventi critici e problematici ce se sono a bizzeffe. La stessa protesta iniziale al cambiamento del calendario può essere uno di questi. Diviene, una volta individuate queste "tracce", essenziale svilupparle con interessati per convenire su obiettivi da perseguire. Questo è l'intervento psicosociale contestualizzato. Contestualizzato perché riportato alla relazione tra chi interviene e la committenza.

Viene da chiedersi: chi interviene?

Il gruppo che si diceva prima per esempio. O alcuni di questo. Qui passa il nodo della definizione di questo gruppo come chi interessato partecipare ad un'intervento su questo problema. E forse può diventare meno fumoso pensare chi si è se ci si collega ad un progetto. Acquisisce un senso specifico chiedersi se essere chiusi o aperti, con linguaggio tecnico o meno, la funzione del blog ecc. ecc. ecc. Un senso ancorato sia a chi a quel progetto sta partecipando sia verso chi lo si sta proponendo. Perché se è vero che intervieni su qualcosa (il possibile interlocutore, il committente...) è altrettanto vero che quel a qualcuno, che lo fa in questa ipotesi, non è utile essere oggettivo^6.

Come attuarlo, ossia su quale risorse possiamo puntare?

Quel progetto di "conoscere per intervenire" può trovare il suo spazio istituito in vari modi: l'auspicato osservatorio, ricerche indipendenti attraverso un'associazione, una ricerca universitaria o non da ultima una tesi di laurea fatta da più studenti. Tutti questi spazi possono essere intesi come spazi per una funzione conoscitiva.

Considerando che, se non erro, nessuno di noi è ricercatore ma bensì tutti studenti in formazione, forse la tesi di laurea è l'ipotesi più avvicinabile se la vediamo come una sperimentazione di competenze in un ambiente "protetto" nel senso di assistito da una funzione docente con cui poter integrarsi e avere riscontro. E con questo che tento di ancorare il progetto a questo gruppo con le sue peculiarità e a chiunque interessato che, come me, si situa in questa organizzazione come studente di psicologia.

Note

^1 ricordo che nel livello di occupazione post-laurea è conteggiato solo il numero di laureati che svolgono un'occupazione coerente con il percorso formativo differenziati dai sottoccupati.

^2 per fallimento collusivo si intende la sconferma delle attese che certe regole, con cui si organizza una situazione, creano. Ad esempio se la segreteria fissa certe date d'esame si suppone ci sarà un professore e degli studenti ad esaminare(vedi "il caso di Chiara").

^3 di qui l'importanza dell'orientamento metodologico che mette in diversa luce anche il problema linguaggio troppo tecnico. Semplificare il linguaggio non voglia dire fare un mix di metodi e teorie "psi" e individuarne il massimo comun denominatore. Se non fosse altro perché è la strada maestra che le svuota di significato professionale trasformandosi in "senso comune".

^4 le regole qui intese non come le semplici normative, ma in un certo senso le routine, gli impliciti che regolano una relazione. Eccone un esempio. Una persona entra dal fornaio. Lecitamente potremmo supporre che sia lì per comprare del pane. Tuttavia, proprio perché supposizione fallisce quando magari la persona che entra urla: "Ma non è qui che vendete calzini?"

^5 psicosociale perché pone al centro del metodo la relazione sociale che sta costruendo i prodotti (la cultura e le regole che la organizzano) e non l'individuo.

^6 qui per oggettivo si intende quella peculiarità scientifica che pone lo studioso fuori dal campo di ricerca, non influenzandolo, oppure tenta di ridurne al minimo l'interferenza.

1 commento:

  1. Lo trovo un contributo ricco di spunti, primo fra tutti il riconoscimento di quella funzione conoscitiva del gruppo, che diventa metodo, che da una parte sospenda le fantasie di onnipotenza (gruppo come "risolutore") e impotenza (gruppo come spazio di lamentela), e dall'altra sia "orientata alla definizione di obiettivi che fondino un intervento contestualizzato". Sembra una banalità, ma la tendenza a "darsi" obiettivi e prodotti a priori, senza conoscere, è fortemente radicata nei gruppi "attivi" che si assumono la responsabilità di indagare ed intervenire sui problemi organizzativi dell'università. A me vengono in mente esperienze precedenti che forse sarebbe interessante approfondire, magari in altri spazi. In secondo luogo, fondamentale mi sembra la riflessione sull'orientamento metodologico e sulla condivisione del linguaggio: vale forse la pena ricordarci che il nostro contesto è formativo, e che forse uno dei nostri obiettivi non è produrre come fine, ma acquisire delle competenze. Alchè, mi interesserebbe capire cosa si intende talvolta con "competenza a comunicare", quando non ci si interroga su cosa si va a comunicare e da quale prospettiva metodologica lo si fa. E soprattutto non si conosce chi è l'interlocutore/lettore/ecc ecc, troppo spesso soltanto fantasticato e investito dalle "fisime" di chi scrive e propone la comunicazione. Ma anche questo apre un nuovo tema, che andrebbe approfondito in uno spazio differente dal commento.

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